BOSTON MARRIAGE
di Caterina
Bagioni, Martina Pepe e Teodora Zamfirova
Il meccanismo messo in moto da “Boston Marriage”, il testo di David Mamet che abbiamo visto rappresentato a chiusura della stagione di prosa domenica 30 aprile, è un caleidoscopio di emotività, drammaticità, disperazione, coraggio, perfidia, amore e intelligenza tutte femminili, splendidamente diretto da Giorgio Sangati e recitato (con che ritmo!) da tre meravigliose attrici: Maria Paiato/Anna, Mariangela Granelli/ Claire e Ludovica D’Auria/ Catherine, la cameriera.
La vicenda si svolge all’interno di una casa borghese nell’America
puritana di fine ‘800 e il titolo stesso è un’espressione per indicare una
convivenza al femminile ovvero un amore saffico del tempo. In realtà c’è molto
di più di questo: anzitutto il tema dell’ipocrisia e della mancanza di libertà della
buona società, che non può accettare questo tipo di relazione, definita dalle
stesse protagoniste con varie perifrasi, a volte semplicemente come “amicizia”
sino a una sorta di perversione. In secondo luogo, c’è la malinconia degli anni
passati e della vecchiaia incombente, di una passione che Anna desidera far
rivivere e rendere stabile (in fondo è per questo che ha accettato di “prestare”
il proprio corpo al ricco amante da cui dipende totalmente la sua tranquillità
economica) poiché, al di là delle gelosie e delle ripicche, ama la sua Claire.
E non è solo una questione fisica, per quanto - nonostante l’età il desiderio
lecitamente non sia affatto spento, ma anzitutto la protagonista ha voglia di
stare con quella persona per condividerne la compagnia, l’affetto, i ricordi,
le conversazioni, il sostegno reciproco, le litigate e le ferite anche, insomma
l’amore di una vita.
Claire invece ha una crisi di mezza età: si è invaghita di una giovane
che poi si rivelerà essere la figlia del generoso protettore di Anna, la quale
- scandalo nello scandalo – intuisce la tresca del padre visto che la preziosa
collana di sua madre è al collo della stessa Anna. Così se dapprima il problema
è organizzare l’incontro segreto fra questa ragazza e Claire con l’aiuto
estorto controvoglia alla povera, cinica e insieme teatralmente sofferente Anna
(salvo compromesso di quest’ultima che almeno vuole spiare le due future
amanti), il dramma successivo è salvare il salvabile data la scoperta del
tradimento del danaroso notabile e il venir meno delle sue entrate, sino alla
minaccia di incarcerazione se non si fosse restituita la collana alla legittima
proprietaria.
Tutto sembra precipitare, ma è proprio nelle difficoltà estreme che il
vero amore si riconosce, specie in un mondo terribilmente dominato dagli uomini
(è anche l’epoca delle prime maltrattate suffragette) e dall’immagine che si
deve dare di sé, di cui la donna è succube, non ultime le stesse protagoniste.
Così, Anna e Claire alla fine torneranno insieme, anzi insieme andranno via,
dopo l’ultimo mistero della collana scomparsa, forse rubata, in realtà un
futile - quasi ingenuo - tentativo di inganno di Anna, poi scoperto da Claire
proprio grazie alla presunta ladra, la cameriera Catherine. Claire si rende
finalmente conto dell’amore e della disperazione di Anna e straccia
letteralmente la sua possibilità di fuga con la giovane ragazza che la attende
fuori in carrozza per partire con la sua vecchia e definitiva amica.
Questa descrizione non deve dare l’idea di un dramma triste, poiché i
novanta minuti dello spettacolo volano fra battute sarcastiche e colpi di scena
veri o presunti, con un ritmo comico davvero sorprendente, oltre al fatto che
il terzo personaggio sul palcoscenico, la cameriera Catherine, completa in modo
eccellente la commedia: è la vittima semianalfabeta delle altre due tutte
concentrate su se stesse, ma pure porta in dote la questione immigrazione
(proviene dalle Orcadi, sebbene Anna, che per svalutarla la chiama in tutti i modi
possibili, la ritiene irlandese), infatti è poverissima, sola, forse
addirittura incinta. E su quest’ultimo punto ci sarebbe da aprire un’ulteriore
parentesi, dato che nasce un dialogo fra Anna e Claire sull’avere o meno figli,
sulla maternità come esperienza che completi una donna o meno (è davvero così,
ancora oggi?).
Insomma, se in “Boston Marriage” il brio di certo non manca e ci ha molto
divertite, sottotraccia ci sono moltissime tematiche femminili e attualissime, dalla
dipendenza o indipendenza economica raggiunta però vendendo prestazioni
sessuali agli uomini, alla difficoltosa emancipazione dal maschilismo imperante
(addirittura talvolta dentro il pensiero delle stesse donne), dal vero amore a
qualsiasi età, alla fragilità e all’ignoranza di cui ci si approfitta in varie
situazioni precarie, inclusa la condizione di un’immigrata, alla cornice dell’ipocrisia
pirandelliana del mondo borghese tutto maschere non solo di un secolo fa (e
pirandellianamente chi si ribella è destinato all’emarginazione o alla follia).
A proposito di Pirandello, forse proprio questo è il senso del suo
umorismo studiato in classe, quel passaggio dall’avvertimento al sentimento del
contrario, al ridere sì, inizialmente, per poi riflettere in questo caso sulla
società che continuiamo a costruire e ad abitare rispetto anche al nostro
essere giovani benché più consapevoli donne.
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