DIPLOMAZIA AL TEATRO ALIGHIERI DI RAVENNA
di Martina Pepe e Alex Tagliati
Parigi, agosto 1944. È notte. C’è afa. In lontananza suoni di spari e scoppi di cannone, intervallati da silenzio. La capitale è ancora sotto il tacco tedesco, sebbene gli alleati dopo lo sbarco in Normandia insieme ai partigiani francesi stiano per liberarla. Proprio per questo, un ordine omicida è stato emanato direttamente da Hitler: far saltare in aria l’intera città.
Siamo in una
stanza del centro di comando nazista: tutto sembra stabilito, tutto è ormai
pronto, le cariche di esplosivo già piazzate. Basta una telefonata ai suoi
ufficiali e, nel cuore di questa lunga notte, il nuovo governatore tedesco, il
generale Dietrich von Choltitz, avrà
compiuto la sua missione: il massacro di centinaia di migliaia - forse oltre un
milione - di innocenti, inermi e inconsapevoli cittadini e contemporaneamente
l’annientamento di secoli di storia, arte e identità di un intero popolo. Lo
scopo ufficiale è una manovra militare: rallentare l’avanzata anglo-americana.
In realtà è l’ennesimo atto di criminale e feroce follia contro tutto ciò che è
umano, come in ogni conflitto, non ultimo quello russo-ucraino attualmente in
corso.
Chi o cosa può
opporsi a tutto questo immane disastro? La diplomazia. La disarmata ma per
nulla debole diplomazia. Quella del titolo dello stupendo dramma di Cyril Gely,
in questo caso incarnata dalla figura del diplomatico svedese Raoul Nordling,
spuntato da una porta segreta dell’Hotel occupato dai tedeschi direttamente
nella stanza del generale. Ce la farà, in modo stupefacente, usando la tattica
sottile del dubbio, l’equilibrio della pazienza, la tenacia della persuasione e
alla fine giocandosi anche la carta dell’inganno a fin di bene, ovvero sostenendo
di poter aiutare moglie e figli di von Choltitz, rei di morte secondo il
ricatto hitleriano, nel caso in cui l’ordine non fosse stato eseguito. Del
resto, che fare? Sacrificare poche vite per quanto incolpevoli o i destini di
tutta Parigi?
Lo spettacolo a
cui abbiamo assistito presso il Teatro Alighieri domenica 16 aprile è stato a
dir poco avvincente: una sensazione strana, come essere all’interno di un film,
anzi come vivere una pagina di storia che, in genere, non si studia a scuola,
mentre era lì, stava accadendo davanti ai nostri occhi. Certo, molto si deve
all’estrema abilità, alla resa incredibilmente realistica degli attori del
Teatro dell’Elfo, ovvero i magnifici Elio De Capitani/ von Choltitz e Ferdinando Bruni / Nordling (ma
anche tutti gli altri soldati e attendenti in scena), oltre alla regia dello
stesso De Capitani e di Francesco Frongia e agli effetti scenici (dalle luci alla
scenografia curata nei dettagli anche delle suppellettili, dall’uso delle
candele in mancanza di corrente in tempo di guerra ai suoni dell’artiglieria,
ecc.). Indubbiamente il testo è ottimamente scritto e costruito (forse con un
precedente importante, ovvero il dialogo nella “Guerra del Peloponneso” di
Tucidide fra Ateniesi e Melii, sebbene a questi ultimi sia andata decisamente
peggio che ai parigini) e anche il ritmo “a ping pong” delle battute sa catturare
l’attenzione dello spettatore che si sente coinvolto fino all’ultimo respiro:
eppure, nonostante la fine sia nota (proprio qualche settimana fa il nostro
viaggio di istruzione aveva come destinazione Parigi, che abbiamo trovato
bellissima e soprattutto intatta), il dubbio che possa prevalere il peggio
aleggia sino in fondo.
Forse, al di là
della perfezione di questo spettacolo che meriterebbe un premio Ubu, il lascito
per noi più importante sta nelle domande sulla natura umana che ci siamo posti
a sipario calato: cosa avremmo fatto noi nei panni dell’uno o dell’altro
protagonista? Anche Nordling ammette la propria incertezza e non sa cosa
rispondere di fronte al dilemma personale di von Choltitz: ammesso di avere il
coraggio di disobbedire a un ordine omicida, come ha poi fatto il generale, che
fare? Fidarsi di un potenziale nemico-amico? Rischiare la vita dei propri cari,
sebbene per un fine apparentemente più grande, ma in un momento storico di
assoluta e quotidiana incertezza? Dunque? Lasciarsi tentare? Lasciarsi andare?
Essere o non essere? Viene in mente il paradosso di uno scrittore citato in
classe, André Malraux: “Una vita non vale niente, ma niente vale quanto una
vita.” E questo anche nelle singole esistenze di ognuno di noi, adesso, nel
nostro 2023.
Commenti
Posta un commento